Rottura del tendine d’Achille: trattamento riabilitativo post-chirurgico

Negli ultimi anni il continuo aumento del numero e dell’età media delle persone che praticano attività sportiva ha portato ad un conseguente incremento di lesioni tendinee, tra le quali la rottura del Tendine d’Achille è una delle più frequenti. È bene ricordare che oltre agli sportivi (maggiormente esposti a questi traumi) queste lesioni possono interessare anche pazienti di una certa età che presentano patologie vascolari, disturbi metabolici e ormonali, oppure che fanno uso di particolari farmaci che possono indurre una rottura spontanea.

La classificazione della rottura del Tendine d’Achille si può così riassumere:

  • traumatica (recente – inveterata)
  • dismetabolica (acuta – subacuta – cronica)
  • infiammatoria (acuta – cronica)

Il quadro clinico è caratteristico: il paziente riferisce un dolore acuto di tipo trafittivo con impotenza funzionale. Raramente viene descritto un dolore modesto e in questi casi il paziente solo dopo alcune ore si rende conto di camminare “in modo strano” zoppicando vistosamente.

All’esame obiettivo si può notare il classico segno clinico dell’avvallamento cutaneo dovuto alla depressione del Tendine d’Achille nella porzione della lesione in cui i due monconi si retraggono.

La diagnosi si avvale dell’esame clinico supportato da Rx, ecografia e RMN.

Il Tendine d’Achille origina dalla fusione dell’aponeurosi dei muscoli gastrocnemio e soleo; solitamente la rottura è localizzata a circa 3-6 cm dall’inserzione calcaneare del Tendine in quanto questa è la porzione meno vascolarizzata e più sottile. Le lesioni che avvengono distalmente, a livello dell’inserzione calcaneare del Tendine, sono quelle a prognosi peggiore. Raramente la rottura è netta, infatti i due monconi si presentano sfrangiati e sflilacciati. Il trattamento è chirurgico tranne in pazienti molto anziani o che non possono sottoporsi ad interventi chirurgici ai quali viene riservato il trattamento conservativo. Le tecniche chirurgiche più usate prevedono: la semplice Sutura Termino-Terminale, Plastiche di Rinforzo, ricostruzioni con Tendini di Banca; in tutte queste tecniche si praticano lunghe incisioni chirurgiche (interventi a cielo aperto). Ci sono poi le tecniche a cielo chiuso per via endoscopica.

Il trattamento riabilitativo occupa un ruolo di primaria importanza affinchè il paziente torni a livelli funzionali precedenti senza deficit di forza. Una stretta collaborazione tra chirurgo e fisioterapista ci permette di raggiungere ottimi risultati sempre rispettando i tempi biologici dei tessuti lesi.

I protocolli di recupero post-chirurgico devono confrontarsi con diverse problematiche: mantenere la caviglia immobilizzata in equinismo oppure no? Per quanto tempo mantenere l’immobilizzazione? Quando concedere il carico completo? Quando togliere definitivamente il tutore? Quando e secondo quali parametri di riferimento concedere il ritorno all’attività sportiva?

I protocolli di recupero sono ormai consolidati e prevedono:

  • 2-3 settimane di apparecchio gessato con piede in equinismo;
  • 3-5 settimane di gambaletto gessato con caviglia in flessione neutra consentendo la deambulazione, con carico completo dopo 6 settimane dall’intervento;
  • ritorno alla corsa dopo 14 settimane, con ripresa dell’attività sportiva non prima dei 5 mesi dall’intervento chirurgico dopo valutazione clinica e funzionale della gamba operata.

Solitamente la rieducazione funzionale ha inizio dopo la rimozione del primo apparecchio gessato e continua per 3-4 settimane dopo la rimozione del secondo gesso. Negli sportivi, invece, data la necessità di un recupero funzionale il più rapido possibile, si inizia il trattamento fisiochinesiterapico dopo pochi giorni dall’intervento, con elettroterapia stimolante ed esercizi di contrazione muscolare.

Fase Riabilitativa

Il processo riparativo di una rottura tendinea impiega diverse settimane, e soprattutto nella prima fase, il tendine viene protetto con un gesso o con un ortesi rigida. Naturalmente questo lungo periodo di immobilizzazione comporta atrofia muscolare e rigidità articolare.

Il fisioterapista dovrà consultarsi con il chirurgo ortopedico che ha eseguito l’intervento, poiché è il solo che può fornire utili informazioni per impostare un corretto intervento riabilitativo. In particolare l’ortopedico può fornire informazioni sull’estensione della lesione, sulla qualità dei monconi tendinei, sul tipo di sutura e quindi sulla tenuta della riparazione.

Il trattamento riabilitativo post-chirurgico ha una durata di circa 12 settimane (salvo complicazioni) con il ritmo di 3 sedute alla settimana alternate fra palestra e piscina.

Gli obiettivi terapeutici nella prima fase riabilitativa (obiettivi a breve termine) sono:

  • controllo dell’infiammazione e dell’edema
  • prevenzione delle aderenze
  • prevenzione dell’atrofia muscolare
  • recupero dell’escursione articolare

Al paziente possono essere insegnati esercizi, da eseguire a domicilio, di stretching in dorsiflessione con l’ausilio di un asciugamano ed esercizi di contrazione muscolare.

L’idrokinesiterapia viene iniziata quando la ferita lo permette. La possibilità di lavorare in acqua costituisce uno degli strumenti più efficaci nel contrastare il dolore e nella ripresa funzionale più completa.

Gli obiettivi nella fase di maturazione e rimodellamento (obiettivi a medio e lungo termine) sono:

  • recupero completo dell’articolarità e della forza muscolare
  • recupero dell’elasticità tissutale
  • ottimizzazione del recupero tendineo

Dal 2-3° mese si possono inserire esercizi con sollevamento sulla punta dei piedi e si continua poi il potenziamento muscolare con esercizi di rinforzo che coinvolgono l’intero arto inferiore.

Riabilitazione propriocettiva

Questa rappresenta una fase importantissima per la ripresa della normale attività del piede, che molte volte viene trascurata.

I recettori propriocettivi sono recettori nervosi estremamente specializzati e sono presenti in un numero molto elevato nelle strutture articolari, soprattutto su legamenti e tendini. Il loro compito è quello di inviare continuamente informazioni sullo stato di stiramento di tali tessuti per permettere al nostro sistema nervoso di reagire in modo adeguato ed estremamente rapido con contrazioni della muscolatura, idonee a stabilizzare l’articolazione e quindi conservare i rapporti articolari stessi, anche in situazioni dinamiche particolarmente stressanti per la caviglia. Tali recettori forniscono anche informazioni necessarie per il mantenimento dell’equilibrio nello spazio.

In seguito ad un trauma, la lesione di alcune fibre articolari e tendinee, l’insorgenza di edema delle strutture e gli stimoli dolorosi alterano il sistema di feed-back “stimolo propriocettivo-risposta neuromuscolare”, aumentando i rischi di recidive a carico dell’articolazione colpita.

Diventa fondamentale per il riabilitatore, recuperare nel minor tempo possibile le capacità propriocettive e stimolarle per restituire all’articolazione traumatizzata la piena efficienza e funzionalità.

La rieducazione neuromuscolare della caviglia e del piede generalmente passa attraverso fasi diverse, nelle quali gli stimoli preposti al paziente subiranno un incremento per quantità e qualità; sarà inoltre importante variare il più possibile gli stimoli stessi cambiando i parametri del movimento (asse, range e velocità).

Per la rieducazione propriocettiva si utilizzano solitamente piani instabili, quali le tavolette Freeman o i dischi gonfiabili instabili; ma è possibile fare molto altro sfruttando l’uso di semplici attrezzi, stimoli manuali indotti dal terapista e il carico del paziente stesso sia in acqua che in palestra.

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